La trappola della felicità
Nella società del tutto e subito si ritiene che più pensiamo positivo più saremo felici. E se fosse proprio questa snervante ricerca della felicità a condannarci alla frustrazione e all'ansia?
“(…) In realtà gli studi dimostrano che, quanto più inseguiamo le emozioni piacevoli e cerchiamo di evitare quelle sgradevoli, tanto più tendiamo a soffrire di ansia e depressione. Ma esiste un’altra definizione di felicità, radicalmente diversa: vivere una vita ricca e significativa (…) la nostra vita si riempie di scopo e di significato, e proviamo un forte senso di vitalità. Non è una sensazione passeggera: è un senso profondo di vita ben vissuta. La parola in greco per questo tipo di felicità è ‘eudaimonia' che oggi viene sempre più intesa nel senso di ‘fecondità’”.
Russ Harris
Cara amica, caro amico,
Benvenuta, benvenuto,
Oggi scrivo di emozioni, in modo particolare della gioia e soprattutto del sentimento della felicità. Mi capita di leggere spesso sui social frasi sulla felicità di scrittori, poeti, attori, drammaturghi, registi. Il problema è che queste frasi sono state estrapolate forzatamente dal loro contesto per essere adattate alla mentalità corrente che ci vuole sempre più iperattivi e col sorriso stampato sul volto, pure in caso di malattie e gravi lutti.
Fateci caso, definiamo tossiche le persone che mostrano il minimo segno di infelicità ma poi lanciamo palloncini al funerale di un suicida, soprattutto se giovanissimo, ricercando il motivo del gesto non nella mancanza di empatia collettiva bensì nell’incapacità del suicida di farsi aiutare o peggio ancora in un mancato coraggio. Alcuni guru della motivazione poi ci invitano, generalizzando, ad allontanare parenti e amici tossici ma siamo sicuri che la via per la felicità consista nell’allontanare tutto ciò che ci fa stare male?
Per la maggioranza delle persone la parola tossico viene riservata non solo ai rapporti disfunzionali e violenti, com’è giusto che sia (e aggiungo dai quali bisogna assolutamente ritrarsi). Tossico diventa, ahimè, l’individuo che manifesta quelle emozioni che abitano il nostro mondo interno ma che non siamo disposti a riconoscere. Quindi, se non accettiamo la nostra tristezza o fragilità, tossici per noi sono tutti coloro che non hanno il sorriso stampato sul volto anche quando le cose vanno male.
In questa epoca siamo ossessionati dalla ricerca della felicità a tutti i costi tanto che si può arrivare a fuggire da se stessi pur di non provare le emozioni disturbanti ovvero quelle sensazioni che sono contrarie alla gioia, come per esempio tristezza, frustrazione, rabbia, noia, paura.
Lo si fa attraverso due meccanismi di difesa: la lotta e la fuga. Pur di non avere ‘brutti pensieri’ o emozioni contrastanti e ‘negative’ fuggiamo dalle situazioni che li attivano oppure lottiamo contro i nostri pensieri-ricordi-stati d’animo non piacevoli in nome di un coraggio che però non è tale. Perché il coraggio è veritiero solo se si attraversa la paura.
Ma siamo sicuri che questo modo New Age di rapportarci al nostro mondo interno ci conduca alla felicità? Secondo Russ Harris, sia la lotta che la fuga da tutte quelle occasioni che attivano le emozioni e i pensieri temuti ci allontanano sempre più da ciò che vorremmo essere e fare. Per farla breve il voler perseguire la via della felicità a tutti i costi è il deterrente per l’infelicità.
Russ Hurris è medico-psicoterapeuta specializzato nell’ACT, ovvero una particolare psicoterapia cognitivo-comportamentale che usa forme di accettazione delle emozioni e dei pensieri disturbanti basate sulla Mindfulness.
Nel suo libro ‘La trappola della felicità’ (Erickson. Lo trovi qui) lo psicoterapeuta spiega come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere. Devo dire che ho trovato questo testo molto esaustivo perché è estremamente pratico e ha finito con l’ampliare la mia visione.
Purtroppo viviamo nella società del fare, dove l’apparenza è più importante dell’essenza e dove l’intelligenza emotiva scarseggia.
Da bambina nessuno mi ha insegnato ad ascoltare, senza giudicare, la paura di deludere, l’ansia di non essere mai abbastanza, il terrore di fallire, la gelosia che provavo a 4 anni quando si elogiavano le virtù del mio fratellino solo per il fatto che fosse maschio. I miei genitori non erano stati educati all’intelligenza emotiva. La nonna materna usava la frusta per educare i figli. Mia mamma aveva un solo obbligo: arrivare alle nozze illibata e avere dei bambini quanto prima. Mio padre doveva pensare a lavorare e a darsi da fare. Non c’era spazio per l’appoggio né per l’ascolto. C’erano solo obblighi. Quindi capirete che, almeno per me (ma credo che lo sia per tutti) ricercare le colpe di ciò che non abbiamo avuto è inutile oltre che dannoso.
Eppure capita di sovente che colpevolizziamo i nostri figli per ciò che provano, anziché chiederci cosa possiamo fare per aiutarli a non farsi gestire dalle loro emozioni a cui va dato un nome e una dignità. Per esempio a noi bambine degli anni Ottanta, agghindate nelle occasioni di festa nei nostri vestiti ingombranti, tanto ingombranti e stretti da non sentirci quasi autorizzate a muoverci, veniva detto, spesso tra le righe, di essere accomodanti, accoglienti e soprattutto di mettere a tacere la rabbia che tutti i bambini (maschi e femmine) prima o poi provano e devono poter provare.
Ma, tornando al nocciolo del discorso, come scrive Harris nel suo libro, per uscire dalla nostra zona di comfort dobbiamo essere disposti a sentire, senza rinnegare, ciò che ci provoca dolore, a empatizzare col pensiero disturbante o con l’insicurezza. Insomma dobbiamo allenarci a essere e ad esserci non tanto per cercare la felicità quanto per stare nella VITA senza precluderci la possibilità di fare esperienze arricchenti e stimolanti.
In questa newsletter ho accennato alla tristezza e alla rabbia. Ma c’è un’emozione sociale, non primaria, con cui tutte e tutti dobbiamo fare i conti prima o poi ed è la vergogna. Anche lei è considerata la Cenerentola delle emozioni, salvo poi usarla inconsapevolmente a livello collettivo per mortificare, avvilire, danneggiare chi commette un errore.
“Perché ti vergogni? Su, dai coraggio. Non devi vergognarti, vedi com’è a suo agio il tuo amico?”, diciamo ai nostri figli o figlie (o alunni) più riservati e timidi proprio per non provare la vergogna di vederli impacciati. Il fatto è che i nostri preadolescenti e/o adolescenti provano vergogna naturalmente e non possono in alcun modo sopprimere questa emozione sociale, anche perché se il loro cervello la produce un motivo ci sarà o no?
La scrittrice premio Nobel, Annie Ernaux, ha scritto un memoir sulla vergogna (lo trovi qui), sostenendo che ha cominciato a sentire e a subire questa emozione quando un giorno il padre ha alzato le mani sulla madre. Da allora per Annie niente è stato come prima. Quell’evento ha segnato il passaggio per la protagonista, tramite l’emozione della vergogna, dall’infanzia all’adolescenza.
Come ho sottolineato prima, anche questa emozione viene demonizzata quando a provarla è un preadolescente o un adolescente, perché essa si ritiene erroneamente che crei il terreno per l’insuccesso. E il fallimento provoca vergogna. Eppure tutta la nostra educazione è basata sulla vergogna. Nella nostra società l’errore non è contemplato; si dice talvolta che sbagliare sia umano ma quanto abbiamo davvero interiorizzato questa frase? Si tratta solo di uno slogan.
Alberto Pellai nel suo libro ‘Allenare alla vita’ (lo trovi qui) racconta di quei genitori che, pur di proteggere i figli dalla frustrazione e dunque dalla vergogna (che spesso loro stessi provano) per aver preso un cattivo voto, se la prendono con gli insegnanti.
Pensate anche a chi si suicida perché non riesce a gestire un fallimento e quindi la vergogna? Pensate a quegli uomini che non riescono a piangere perché si vergognano e alle vittime di stupro che si vergognano di denunciare (spesso hanno anche paura) o alle donne che tradiscono il marito e sulle quali ancora oggi viene posto il marchio della lettera scarlatta? Faccende private che diventano pubbliche. Frasi dette e decontestualizzate dai social media che fanno perdere il lavoro a personalità del mondo della cultura, dell’arte, della politica, dello sport. Tutto è portato all’estremo e tutto passa mediante la vergogna. Ma individualmente, nel buio delle nostre case, diciamo ai nostri figli o nipoti di non provare vergogna.
Come sostiene Annie Ernaux, la vergogna potrebbe nascere dal senso di colpa ma anche questo stato d’animo atavico ha motivo di esistere, perché, se riconosciuto, non ci manipola. La vergogna spesso va a braccetto con la timidezza o anche con l’introversione che di per sé non sono controproducenti se non portate all’estremo. Ma si estremizzano quando non diamo loro dignità.
E allora qual è la morale di questa newsletter? Il mio suggerimento è di prenderti cura del tuo mondo interno (e quello dei tuoi figli se ce li hai o di chi hai a cuore). C’è un grande amico o una grande amica che ti aspetta. Chi? Sei tu. Comincia a essere gentile con te stessa-te stesso e con ciò che provi e ne trarrai tutto il bello che c’è! Ma ricorda che il bello esiste perché c’è il brutto…
Eventi a cui ho partecipato
Silent Book Party - Cesinali (Avellino) - 13 settembre 2024. Ecco il reel:
Incontro meditativo e letterario in onore di Alda Merini - Lioni (Avellino) - 20 settembre 2024.
Prossimi eventi?
Presto saprai…
Con affetto. Maria Ianniciello